Aldo Marchetti (16-01-2022)

1 – Il neoliberismo nel settore agricolo in India

            Il 19 novembre del 2021 il governo indiano di Narendra Modi, dopo le proteste del mondo contadino, ha ritirato le leggi di riforma agraria che aveva emanato poco più di un anno prima. La riforma doveva essere un importante passo avanti sulla strada della “modernizzazione” neoliberista del paese. Rappresentava il proseguimento di una tendenza generale di politica economica ma era stata varata anche sotto la pressione dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) e dei maggiori paesi produttori. Nei decenni passati i paesi occidentali, attraverso il WTO, avevano spesso intimato all’India di rimuovere i sussidi pubblici al settore primario. Nel 2018 gli Usa si erano attivati per imporre al paese asiatico la rimozione degli incentivi alla produzione del riso e del grano. Nel 2019 il Canada a gli Usa insieme chiesero la riduzione del prezzo minimo garantito degli stessi prodotti e l’Australia si lamentò per i sussidi alla produzione della canna da zucchero. Nel giugno del 2020 Canada e Paraguay accusarono l’India di concedere agli agricoltori aiuti economici superiori a quelli permessi dagli accordi internazionali. Secondo la logica della libera concorrenza, intesa come legge universale, tali misure creavano “distorsioni di mercato”.

             L’India ha storicamente un mercato agricolo regolato che consente ai piccoli produttori di vendere nei mercati locali ma tende anche a proteggerli dalle imprevedibili oscillazioni dei prezzi e dalle manovre degli speculatori. Ogni stato della federazione è parzialmente autonomo ma ha l’obbligo di regolare in modo trasparente il funzionamento dei mercati all’ingrosso: i cosiddetti “mandis”. Nei “mandis” intermediari e grossisti operano in una cornice legale che comprende un sistema di prezzi minimi d’acquisto (Minimum Support Price o MSP); pone limiti allo stoccaggio dei prodotti, per prevenire l’aggiottaggio; limita e sorveglia la contrattazione diretta tra produttori e grandi operatori dell’agrobusiness. Con i processi di deregolamentazione avviati da tempo, tuttavia, le grandi corporations, da poco entrate nel mercato agricolo, si aspettavano una completa liberalizzazione e sentivano queste norme come una camicia di forza per lo sviluppo della loro attività.

            E’ in buona misura sotto la pressione del mercato internazionale quindi che Modi ha fatto votare un insieme di tre leggi che dovevano cambiare alla radice l’assetto dell’agricoltura indiana. La prima prevedeva un indebolimento del sistema del mercato regolato e l’introduzione di un altro mercato parallelo più libero, che poteva operare anche attraverso l’interscambio elettronico. La seconda ammorbidiva le regole sullo stoccaggio dei prodotti portandolo a quantità molto più elevate delle attuali. L’ammasso poteva essere interrotto solo se i prezzi si fossero innalzati in misura eccessiva. La terza legge prevedeva la messa in opera di una rete federale (che superava quindi le decisioni dei singoli stati) per la contrattazione diretta tra produttori e imprese dell’agrobusiness che avrebbe quindi aperto le porte al libero gioco dei prezzi. A questi tre dispositivi se ne doveva aggiungere un altro, che il governo già in passato aveva cercato di rendere operativo senza riuscirci, e che avrebbe rimosso ogni ostacolo alla compravendita della terra, spianando la strada al rafforzamento del latifondo privato.

            Il ragionamento del governo era tratto di peso dal ricettario della farmacopea neo-liberista.   La riduzione del potere dei singoli stati avrebbe reso omogeneo su tutto il paese il mercato, “razionalizzandolo” e consentendo transazioni su ampia scala; la creazione del mercato parallelo avrebbe favorito la competizione tra le piccole imprese e di conseguenza avrebbe portato a un aumento della produttività complessiva del settore, la quale, a sua volta, avrebbe provocato un incremento dei redditi dei produttori. In definitiva grazie a queste leggi i contadini sarebbero stati meglio e non peggio.

            La verità è ben diversa, come è dimostrato dall’esperienza di molti altri paesi. Le “black laws” di Modi (così le hanno subito chiamate i contadini indiani) eliminando la rete di sicurezza del prezzo garantito lascerebbero i piccoli produttori alla mercé delle grandi imprese che imporrebbero i loro prezzi concorrenziali. Moltissimi piccoli produttori andrebbero in rovina e dal loro fallimento trarrebbero vantaggio, ancora una volta, le grandi imprese con l’acquisto della terra a prezzi irrisori e l’innesco di un processo di concentrazione della proprietà. L’esperienza insegna inoltre che le grandi imprese di lavorazione e distribuzione preferiscono rifornirsi presso altre imprese agricole di grandi o medie dimensioni, organizzate in modo “razionale” e collocate in aree ben servite, in modo da ridurre i costi di transazione, raccolta e trasporto. Da questo circuito i piccoli e piccolissimi produttori, con poche infrastrutture e terre collocate in aree poco servite, sono del tutto emarginati e finiscono fuori mercato. Infine anche la soppressione delle regole sullo stoccaggio dei prodotti e la deregolamentazione dell’acquisto dei terreni favoriscono platealmente i complessi agroindustriali a scapito dell’agricoltura famigliare. 

            Le conseguenze di questi processi sono più che evidenti. Alle famiglie contadine impoverite, espropriate, private dei mezzi di sussistenza, resterebbero solo due strade: trasformarsi in forza lavoro salariata al servizio delle grandi imprese o emigrare nelle metropoli  in cerca di altre fonti di sopravvivenza. Si tratta sempre di trasferimenti di masse enormi di persone, di mutamenti epocali che non vengono mai contemplati nei progetti di “razionalizzazione” e “ammodernamento” promossi dalla Banca Mondiale o dal Fondo Monetario Internazionale. In India il tasso d’urbanizzazione della popolazione, nonostante la presenza di alcune tra le maggiori megalopoli del pianeta (l’area metropolitana di Mumbai conta 23 milioni di persone e quella di New Delhi 30 milioni), è ancora relativamente modesto: raggiunge il 34% contro quasi l’85%, ad esempio, del Brasile. Il 66% degli indiani vive ancora nelle aree rurali ed è legato, in un modo o nell’altro, a una economia agricola. E’ facile immaginare che cosa accadrebbe in pochi anni con l’affermarsi pieno del capitalismo nelle campagne.

            Quando il governo Modi sostiene che i contadini indiani verrebbero favoriti dalle nuove leggi dice una minima parte di verità, poiché di certo una piccolissima quota di agricoltori troverebbe il modo di migliorare la produzione e, legandosi alla grande impresa in una posizione subordinata, spunterebbe migliori condizioni di reddito; la parte di gran lunga più grande della verità, tuttavia, viene tenuta nascosta: l’assoluta maggioranza dei contadini indiani cadrebbe nella miseria e andrebbe a gonfiare gli slum di Mumbai, di Calcutta e delle altre metropoli.

2 – Le rivolte contadine

            I timori dei contadini indiani appaiono ancor più giustificati se si pensa alle conseguenze che hanno avuto sulla loro vita le politiche di stampo neo-liberista già adottate dai governi passati.

            Va ricordato che nel decennio ’80 l’agricoltura indiana ha vissuto un periodo di intenso sviluppo. Furono gli anni della Rivoluzione verde, un mix di misure tecniche (sementi rafforzate-irrigazione- fertilizzanti-nuove tecnologie) e di interventi finanziari sostenuti dallo stato, dapprima ristretti ad alcune aree e poi estesi a tutto il paese. A tutto ciò si era aggiunta nel 1969 la nazionalizzazione delle banche con la conseguente apertura del credito ai piccoli agricoltori. In quegli anni l’agricoltura registrò un rapido sviluppo le cui caratteristiche possono certamente suscitare molte discussioni: resta il fatto che la crescita del Pil del settore mantenne a lungo il ritmo del +4,8% all’anno, in linea con quello che si stava verificando nel settore industriale. Dopo la svolta verso il neoliberismo, avvenuta in modo repentino nel 1991 ad opera del governo di Manmohan Singh le cose cominciarono ad andare in un’altra direzione. Le restrizioni quantitative alle importazioni di prodotti agricoli vennero rimosse, la spesa pubblica per l’agricoltura subì una forte diminuzione, la richiesta di terreni da dedicare all’industria e ai servizi portò a un aumento dei prezzi e alla riduzione dell’offerta di terra coltivabile, la frammentazione della proprietà causata dalla contrazione del credito si sviluppò a grande velocità. Nel decennio ’90 le aree coltivabili a uso alimentare diminuirono dal 76% al 73,4%. L’agricoltura indiana entrava in un periodo di  stagnazione dal quale non è mai uscita.

            Tra le conseguenze più evidenti di questa crisi vi è il crescente numero di contadini rimasti senza terra o con terra insufficiente per mantenere la famiglia. Ancor più impressionante, come è noto, è l’aumento del numero dei suicidi, causati da debiti, fallimenti, disoccupazione, fame. Si stima che negli ultimi 30 anni, da quando il paese si è aperto al mercato internazionale, si siano verificati 400.000 suicidi di contadini. In questi casi le donne si sono trovate a dover coprire il ruolo di capofamiglia, in un ambiente in cui le leggi e i costumi (è piuttosto raro che le donne siano titolari dei diritti di proprietà della terra) non prevedono per loro alcuna tutela.

            E’ in questo contesto che si è collocata la recente ribellione contadina, che ha avuto il culmine nel movimento contro le “leggi nere” di Modi, ma di cui non vanno dimenticati i primi passi.

            Il 15 ottobre 2015 è la data d’inizio di una vertenza che ebbe una notevole risonanza in tutto il paese. Le 6000 donne raccoglitrici di té di una grande piantagione nello stato del Kerala, di proprietà della multinazionale Tata, scesero in sciopero contro la decisione dell’impresa di sopprimere un bonus del 20% della paga che era stato raggiunto in precedenti mobilitazioni e per un aumento della paga che era di 230 rupie al giorno e che equivaleva alla metà della retribuzione media del settore nel resto dello stato. Le donne inoltre protestavano per le condizioni di vita, costrette come erano a vivere in minuscoli capanni con lo spazio per un solo letto e privi di servizi igienici. Infine contestavano la dirigenza del sindacato accusata di corruzione e maschilismo. In modo auto-organizzato hanno occupato la strada principale isolando la direzione della piantagione e hanno mantenuto il presidio per nove giorni sino a che sono riuscite ad ottenere quanto avevano chiesto nella piattaforma rivendicativa.

            Il 13 marzo del 2018 è stato il giorno di un’altra importante vittoria dei contadini del Maharastra, lo stato più ricco della confederazione. La protesta era cominciata il 6 marzo nel distretto rurale di Nashik. Da li si erano messi in marcia circa 35.000 agricoltori in maggioranza donne, bambini e anziani. Quando sono arrivati a Mumbai, dopo una marcia di 180 km, occupando il grande spazio per i raduni al centro della città denominato Azad Maidan,  erano diventati 50.000 . Dopo una serrata trattativa condotta dai sindacati, appoggiati dai partiti della sinistra, le rivendicazioni contadine sono state accolte in blocco. Tra di esse la cancellazione dei debiti causati da eventi climatici violenti come la grandine e l’assegnazione dei terreni forestali a quelli che li coltivano da anni. Si è trattato di una piccola riforma agraria, ristretta al Maharastra, ma che poteva diventare un esempio per molti altri stati.

            Il mondo contadino indiano era quindi in fermento già prima del varo delle nuove leggi e non solo nel Maharastra e nel Kerala. Manifestazioni e  cortei di protesta si erano tenuti  nel Uttar Pradesh, nel West Bengala, nel Bihar, nel Madhia Pradesh, dove nel 2017, negli scontri tra contadini e polizia, persero la vita cinque agricoltori. Il pacchetto di leggi promulgato da Modi nel settembre del 2020 non ha fatto altro che smuovere la cenere e soffiare sulle braci.

            La contestazione è scoppiata a fine settembre dello stesso anno con manifestazioni e cortei nelle principali città dell’India, soprattutto nel Punjab, Uttar Pradesh, Aryana. Nel mese di novembre centinaia di migliaia di contadini con i trattori, camion e motocicli  hanno marciato su New Delhi. Una intera tendopoli è stata piantata agli imbocchi delle tre principali autostrade che dalla capitale portano verso il Nord del paese. Furono approntati ambulatori, cucine e strutture collettive, per dimostrare al governo che i contadini erano preparati ad affrontare un lungo periodo di mobilitazione pur di ottenere l’abolizione delle leggi da poco varate.

            Il 26 novembre del 2020 la mobilitazione contadina si è incrociata con quella operaia, programmata da tempo dai maggiori sindacati dell’industria e dei servizi e appoggiata dal NCP (National Congress Party), dal CPI  (Communist Party of India) e da altre formazioni politiche di sinistra.  Quel giorno scesero in sciopero generalenazionale 250 milioni di persone in tutto il paese. Lerichieste comprendevano sussidi economici alle famiglie più povere; 10 kg di grano per persona al mese alle famiglie più disagiate; l’attuazione del programma “Gandhi” cioè il raddoppio, da 100 a 200, del numero di giornate di lavoro annuale garantite per i braccianti e l’aumento delle loro paghe; il ritiro della legge contro la rappresentanza sindacale di recente promulgazione; l’appoggio delle richieste degli agricoltori; il blocco delle privatizzazioni delle imprese pubbliche; il miglioramento del sistema di welfare e la pensione per tutti. Allo sciopero sindacale ha fatto eco quattro giorni dopo, il 30 novembre una marcia di  100.000 contadini a New Dehli.

            Seguendo un rituale ormai consolidato, nei giorni successivi, il governo indiano non diede nessuna risposta ai manifestanti (sarebbe apparso un segno di debolezza) ma l’ampiezza della mobilitazione popolare e i rischi di una intensificazione della lotta, questa volta devono aver preoccupato non poco i gruppi di potere. Una prima risposta arrivò infatti per strade traverse. Nel gennaio del 2021 la Corte Suprema sospese l’attuazione della legge e istituì una commissione di consultazione nazionale nel cui ambito si tennero undici incontri tra sindacati e governo senza alcun risultato.

            Nel frattempo continuavano in tutto il paese manifestazioni, cortei, presidi davanti alle sedi governative. Negli scontri tra manifestanti e polizia nello stato di Haryana trovò la morte un contadino mentre altri dieci rimasero feriti. Otto persone furono uccise dalla polizia durante le manifestazioni di piazza  nell’Uttar Pradesh.

            Nel frattempo il presidio stabile alla periferia della capitale si andava progressivamente ingrossando con una forte presenza di donne che, il 18 gennaio 20121, organizzarono una loro specifica mobilitazione: il “Woman Farmer Day”. La manifestazione più ampia  di tutto questo periodo si tenne il 26 gennaio del 2021, il giorno delle celebrazioni della fondazione della repubblica indiana, con decine di migliaia di contadini che con i loro trattori sfilarono verso il centro città, travolgendo i posti di blocco e mettendo sotto assedio il Red Fort, il simbolo della capitale. Durante gli scontri con la polizia un contadino rimase ucciso e centinaia furono i feriti ma il bilancio complessivo di vite umane durante il presidio è molto più alto: 25 persone sono morte di freddo, per arresto cardiaco, per incidenti stradali.

            Ci vollero ancora nove mesi di lotta ma alla fine nel novembre, senza preavviso, arrivò la decisione del governo: le “black laws” erano decadute e aspettava ora al Parlamento votare al loro abrogazione.

3 – L’opposizione al neo-liberismo oggi in India.

            Da dieci anni a questa parte l’India è scossa da lotte sociali di straordinaria portata. I primi grandi scioperi sono cominciati nel 2012 contro le politiche neo-liberiste promosse dal Governo tenuto dal National Congress Party (NCP): il partito progressista di Gandhi e Nehru che reggeva il paese dai tempi dell’indipendenza ma che si era convertito negli anni ’90 alle dottrine del libero mercato. Nel febbraio di quell’anno si tenne un primo sciopero generale sulla base di una piattaforma che chiedeva tra l’altro, il rafforzamento del diritto del lavoro; l’instaurazione di un sistema di welfare; la fine dei processi di privatizzazione delle imprese pubbliche; l’abolizione del lavoro precario nelle attività a carattere permanente. Come si vede si trattava di un manifesto anti neo-liberista. Lo sciopero generale ebbe una replica nel febbraio dell’anno dopo con un’astensione dal lavoro di due giorni. Nel 2014 il NCP pagò cara la svolta liberista e perse le elezioni a favore del Bharatija Janata Party della destra integralista e populista. Gli scioperi generali però continuarono con una cadenza assai sostenuta. Sono ritornati nel 2015, nel 2016, e nel 2019. Secondo le cronache, a quello del 2012 hanno partecipato 120 milioni di lavoratori. Lo sciopero generale di due giorni, tenuto nel 2019 ha visto la partecipazione di 200 milioni di persone ed è sfociato in numerosi scontri con la polizia e con migliaia di attivisti arrestati. I numeri dei partecipanti possono essere forse gonfiati, come sempre succede, ma senza dubbio si tratta degli scioperi più grandi della storia delle lotte operaie. La congiunzione tra l’agitazione operaia e la mobilitazione contadina del novembre del 2020, alla quale abbiamo accennato, per il comune indirizzo contrario alla politica economica governativa, ha quindi una straordinaria rilevanza.

            Il governo Modi, secondo una sperimentata strategia populista, ha spostato il baricentro del dibattito politico dai problemi economici e sociali a quelli identitari di carattere nazionalistico, religioso e morale. Mostra ostilità nei confronti delle religioni “importate” (dall’Islam al Cattolicesimo, che in India rappresentano solo delle ristrette minoranze), ma accoglie con devozione le dottrine occidentali in campo economico. Le armi di “distrazione di massa” tuttavia qualche volta funzionano e Modi, dopo il successo del 2014, ha vinto anche le elezioni del 2019. Ha perso tuttavia le elezioni nel West-Bengala della primavera del 2021 e nel timore di perdere quelle che si terranno a breve nel Uttar Pradesh, nel Punjab e nel Uttarkhand ha ceduto alle richieste dei contadini.

            In India le lotte degli operai e dei contadini, unite a quelle delle donne e dei movimenti ecologisti, riportano al centro dell’attenzione i problemi economici e sociali. Hanno una doppia valenza: mettono in discussione allo stesso tempo il neo-liberismo e il populismo. La loro importanza va ben oltre i confini del vecchio subcontinente indiano.